Erano circa le otto o le nove di sera quel giorno a Maputo.
L’aria tiepida dell’inverno mozambicano le accarezzava il volto tentando invano di farsi strada tra quei suoi capelli ricci.
Corvini come l’abisso in cui nuotavano i suoi pensieri.
Era seduta nel tavolo più a est della terrazza di quel ristorante, così affollato per essere solo un martedì sera di fine ottobre.
Improvvisamente, il rumore stridente dell’acciaio d’una forchetta su un bicchiere rompeva il brusio della calca di bocche affamate, per annunciare l’arrivo della prima portata.
Anche lei si voltava fervente in attesa.
Pochi istanti dopo il baccalà veniva servito.
Arrivava su un piatto di ceramica bianco, contornato da patate arrosto fumanti, la cui buccia era sfogliata dal calore del forno.
Il pesce era speziato e il profumo di timo e menta aveva invaso tutta la sala fino ad arrivare nella terrazza, per abbracciare quello del mare.
Da lontano la osservavo in silenzio.
Con la forchetta, timidamente si avvicinava il cibo alla bocca. Le labbra si macchiavano d’olio d’oliva e le sue mandibole divoravano quel pesce così come a momenti si divora la vita.
Con ingordigia, senza sazietà.
Sarei mai riuscito a dirle ciò che sapevo?
Questa domanda mi tormentava.
Come avrebbe reagito conoscendo la verità?
Erano passati così tanti anni da quel giorno d’estate.
Allora vivevamo lontani da tutto.
Le giornate erano scandite dal rincorrersi del giorno e della notte.
Al mattino si lavavano i panni sporchi di fronte a casa, dove l’acqua era limpida perché il fondale era pieno di sassi.
Sbattevamo i vestiti bagnati sulle rocce vicino al fiume prima di metterli ad asciugare al sole sui cespugli vicini.
I pomeriggi erano dedicati a raccogliere la legna per cucinare e riscaldarsi durante le fredde notti africane.
La vita scorreva lenta, così perfetta.
Ma ora,
ora era tutto diverso.
E lei che allora era così piccola, cosa avrebbe pensato di tutto questo?
Il dubbio mi tormentava ma sapevo di non poter più aspettare.
Avevo deciso.
Le avrei parlato, al termine di quella cena.
Lo chef rientrava per servire il dolce.
Una mousse di cioccolato su cui cadevano fette di papaya caramellate.
Ne prendevo un cucchiaio, quasi a voler trovare coraggio in quell’abbraccio di dolcezza.
Sentivo lo zucchero del cacao sulla punta della lingua mentre i pezzi di frutta iniziavano una danza che si muoveva da un lato all’altro del mio palato.
Poteva un momento così idilliaco anticipare ciò che sarebbe accaduto di lì a poco?
Questo pensiero mi attraversava portandomi a interrogare il senso intero della vita.
La sala iniziava a svuotarsi e io mi preparavo alla resa dei conti.
Il cuore batteva all’impazzata, gocce di sudore freddo mi rigavano la fronte e d’un tratto ogni fibra del mio fegato voleva solo che abbandonassi la scena.
Il cameriere, forse, si era accorto di me.
Mi osservava con occhi pieni di domande e con aria intimidatoria.
Non era abbastanza per dissuadermi dall’agire però.
Ogni viscera del mio corpo implorava di lasciar stare.
In fondo erano passati vent’anni.
La sala era vuota e lei si alzava dal tavolino.
Per tutto il tempo di quella cena ero rimasto nell’ombra, seduto in disparte. Non volevo che mi vedesse, anche se pensavo che a stento mi avrebbe riconosciuto.
Ma ora lei era là, da sola e pronta a lasciare il ristorante.
Ingoiando l’ultimo sorso di vino avanzato appoggiavo il bicchiere sul tavolo dirigendomi verso la terrazza.
“Juao, che stai facendo a Maputo?”
La mia lingua era rannicchiata in fondo alla bocca senza fiato né corde per risponderle. Mi aveva riconosciuto.
E allora perché non si era fatta avanti? Perché non mi aveva salutato o invitato a cenare con lei?
“non crederai che non mi fossi accorta di te?
non sono così ingenua, e poi adesso, sono una donna”
Impietrito la guardavo disinvolta rivolgersi a me e accendersi una sigaretta macchiata già di rossetto.
Era ancora più bella di come l’avevo immaginata nel corso degli anni.
Avremmo mai pensato di incontrarci così quando eravamo bambini?
mi chiedevo in silenzio, incapace di aprir bocca.
L’aria d’un tratto mi sembrava più densa e non riuscivo a mettere a fuoco i pensieri. Tutto era sfuocato.
Il ristorante era ormai vuoto, i camerieri erano altrove.
Lei mi osservava con aria serena gustando quella sigaretta che sembrava non consumarsi tra un tiro e l’altro.
Io ero impietrito e disorientato.
“Marienne volevo …”
FRABOOM
poi il silenzio più assordante seguiva il colpo della sua pistola.
Aveva sempre saputo la verità.
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