[sulla natura delle odierne insicurezze, bottiglie di vino rosso e irriducibile speranza nel domani]
Per disgrazia o per fortuna ho passato la metà della mia vita lavorando al bar.
Così, diciamo che, conoscere persone nuove, fare amicizia, incontrare l’amore, non è mai stato troppo difficile per me.
Il bar è un luogo sacro.
Al bar ci si incontra, a volte anche per sbaglio.
Ci si guarda fingendo di non farci caso.
Si beve, imparando a lasciar andare le inibizioni, se si ha abbastanza coraggio, si parla.
Poi, sempre al bar, ci si ritorna, sperando di incontrarsi di nuovo.
[Ragazzi devo ammettere che siete sempre stati bravi, perché stare dietro al banco è dannatamente più facile che giocare da avventori, il karma vi sta rendendo giustizia, sappiatelo]
Il bar è un luogo talmente importante per la società che ancora mi chiedo perché non esista una legislazione ad hoc per tutelarli.
E ancor di più perché bariste e baristi non siano categoria protetta.
I’m not joking at all.
Le relazioni, nei bar, nascono spontaneamente, con fluidità, con alchimia, con passione.
E sono bellissime.
Sono quel vivere che non ti aspettavi ma succede.
Che ti sorprende e che ti porta via, letteralmente.
Ma che si fa se i bar chiudono?
Se la società chiude?
Se le persone abbandonano completamente la vita reale per spostarsi nella realtà virtuale?
Ecco che succede.
Succede Tinder.
Non è Pop Art, ma Tinder © Silvia Mangini
Ed eccoci al “pronto a comer”(pronto per essere mangiato)
E non me ne vogliate, non c’è niente di male a conoscersi, celebrare il momento e salutarsi, anzi.
Io a Bauman e al suo amore liquido avrei voluto dirne tante; credo che la libertà con cui si vivano le relazioni oggi, dove le persone si lasciano anziché potrarre legami infelici per tutta la vita, sia davvero una evoluzione positiva dei rapporti di coppia.
Ma ho sempre avuto una certa diffidenza verso le app di appuntamenti.
Spopolavano quando mi trasferii a Londra, eppure anche tra quelle 10 milioni di anime, io andavo ogni lunedì al Blues Bar, così Oxford Circus era già un po’ la mia piccola Volterra, e le relazioni, di qualsiasi natura, non passavano dalla rete.
Niente App di appuntamenti per me, almeno fino a ieri sera.
Infatti, un po’ per curiosità antropologica, un po’ perché sono single in una città nuova, un po’ perché ho smesso di fumare e quindi dire due cazzate qualsiasi e iniziare a parlare è diventato più difficile, ho scaricato Tinder.
A casa con le mie due coinquiline, una bottiglia e mezzo di vino rosso spenta, una sana e auentica voglia di prendersi per il culo.
E così sono passate le successive due ore: ridendo al mercato della carne al prezzo più barato.
Scorrendo a destra e sinistra tra i vari ed eventuali “matches” pensavo con grande amarezza a dove diavolo siamo finiti.
Costretti, costrette, a scrivere un curriculum con tanto di punti di forza e interessi, anche per incontrarsi.
Trangugiati dall’era della fretta senza sosta; perché dai, vogliamo davvero perdere tempo ad incontrarci per caso e scambiare due chiacchiere prima di capire che a entrambi piace dormire, mangiare e fare l’amore?
No way.
Ubriaca, ma non abbastanza da smettere di pensare, ho detto alle ragazze: “immaginate, 50 anni fa a quest’ora saremmo state a un appuntamento romantico in un caffé, ora sfogliamo gente sulle pagine di un telefono”
Swipe left to say no, swipe right to say hi.
(concedetemi almeno quest’ironia)
Non è Pop Art ma Tinder © Silvia Mangini
Ma la mia riflessione più profonda non riguarda l’app in sé quanto il meccanismo dannoso e perverso che sta dietro al mondo del web, soprattutto quando applicato alle relazioni umane.
E visto che dal bar son finita a lavorare interamente online, ho raccolto materiale d’analisi sufficiente a costruire un case study.
Ed ecco le mie dopo due ore di Tinder (dove ho usato una saliera come foto profilo):
Il digitale è dannoso.
Il digitale fa più male che bene.
Il digitale è l’opportunità ma anche il mostro dei nostri tempi.
Il digitale ci ha privato della bellezza che c’è nello scoprirsi lentamente, nel conoscersi, nello stupirsi di ciò che abbiamo in comune e ciò che ci allontana.
Il digitale sta uccidendo la vita basando la sua forza sul nostro senso di insicurezza.
Perché si, anche se si è introversi, il web non aiuta affatto a rompere il ghiaccio.
Semmai ingigantisce ancora di più la paura che accompagna l’idea di conoscerci, aprirsi.
E no, non ci servono app per incontri che non siano a sfondo sessuale.
Non ci servono proprio app per incontri.
Ci serve uscire di casa senza telefono e chiedere un’informazione a un passante, se ci piace, anche meglio.
Ci serve camminare guardandoci intorno perché ci si può innamorare anche con uno sguardo se si ha modo di alzarlo da Google Maps.
Ci serve vivere qui e ora.
Soprattutto se si è introversi.
Soprattutto se si è timidi.
Soprattutto se questo ci spaventa.
Il digitale, nelle relazioni non ci serve.
Il digitale, nelle relazioni, è una merda.
Non è Pop Art, ma Tinder © Silvia Mangini
Tinder sul mio telefono è durato il tempo necessario a raccogliere il materiale per questo articolo.
E nonostante lavori online, se conosco qualcuno che mi piace, non lo cerco online.
Non voglio sapere proprio niente prima.
Il bello del viaggio è il viaggio stesso.
Chiamatemi irriducibile, ma io aspetto al bar.
Se non incontro nessuno, almeno avrò bevuto un buon bicchiere di vino.
E spero col cuore lo facciate anche voi.
[inutile dirlo, ma meglio farlo, il bar è solo un esempio, il vino, anche, you got the point]
Silvi
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