[su_quote]Ciao Gianca, ti racconto il Nepal
Queste sono le parole che risuonano nella mia testa da Gennaio, quando di ritorno dal Nepal ci trovavamo in Sicilia e dovevamo incontrarci, per salutarci e raccontarci quello che era successo nei mesi passati nelle nostre vite.
Questo Gennaio ti ha portato via, e questa chiacchierata non l’abbiamo mai fatta. Sei stato tra i miei primi lettori, ed uno dei più affezionati.
Scrivevo durante il viaggio, ma tu non ti perdevi un articolo e non mancavi di regalarmi qualche bellissima parola di incoraggiamento in cambio, e quindi questa piccola rubrica sul Nepal io in un certo senso te la devo.
Chissà se in qualche modo, da dove sei ora, tu non riesca ad ascoltarmi. L’Asia ha ammorbidito il mio materialismo; forse aveva ragione Terzani quando diceva che noi occidentali abbiamo dimenticato il cielo con tutto questo razionalismo, ed io voglio credere che tu riesca a sentire queste mie parole.[/su_quote]
Raccontare il Nepal non è per niente semplice. E’ un Paese che sognavo di conoscere da anni, ma di cui tuttora non riesco assolutamente a cogliere l’interezza. Nonostante ne abbia studiato la storia, assaggiato un po’ la cultura e le usanze; nonostante ne abbia letteralmente vissuto i microclimi, gli sbalzi di temperatura e i dirupi scoscesi.
Gli Indù credono che le montagne nepalesi siano la dimora degli dei, e in effetti, di fronte a tanta grandezza non si può che provare un forte senso di rispetto e reverenza.
Io sono arrivata in Nepal dall’India, attraversando una frontiera terrestre.
Sono a Varanasi, gli ultimi giorni di Novembre quando Shunya, il ragazzo che mi ospita a casa sua, mi accompagna a prendere un treno alle 5 del mattino. Direzione Gorakphur: la stazione ferroviaria più vicina al confine di Sonauli/Belahiya. Ciò che mi separa dal Nepal è ancora un viaggio di circa 5 ore via treno, cui si aggiunge un infinito secondo viaggio in autobus che dura circa altre 10 ore e che dalle colline indiane dell’Uttar Pradesh, porta a Sonauli, città di confine.
India-Nepal: da Gorakphur a Sonauli
Come accade sempre, nelle zone di confine tra Stati, c’è sempre una forte mescolanza.
Questa commistione di culture e tratti somatici si impadronisce del viaggio dal primo passo sul treno in direzione Gorakphur.
Ci sono viaggiatori come me, trekkers per lo più, ma anche famiglie indiane che si spostano a nord, e nepalesi che invece fanno ritorno a casa.
Questa mescolanza che si respira di fronte ad ogni zona di frontiera mi spinge a riflettere su quanto, proprio in queste aree, il concetto stesso di confine perda completamente ogni significato.
Le zone di confine ci insegnano quanto tutti abbiamo le stesse abitudini e le stesse esigenze.
Ci dimostrano apertura e uguaglianza, e quando sono chiusi, invalicabili, dovremmo fermamente chiederci il perché.
La frontiera tra India e Nepal è un confine aperto.
Ci si muove liberamente tra i due stati e per noi stranieri è possibile richiedere il visto all’arrivo, semplicemente compilando la documentazione all’ufficio di frontiera muniti di passaporto e un paio di fototessere.
L’emozione che ho provato nello scorgere la frontiera è indescrivibile.
La nostra generazione è purtroppo così abituata alla facilità, all’istantaneità data dal muoversi in aereo coprendo immense distanze in pochissimo tempo, che ha perso tutta quella ricchezza di emozioni che ci regalano i percorsi più duri, dove la meta è un traguardo più atteso, come raggiungere un confine via terra.
All’ingresso in Nepal una piccola guest house, e un caldo piatto di Dal Bhat in un ristorante sulla strada.
L’incredibile doveva ancora arrivare.
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