Trujillo: il mio incontro con il vero Perù

che cosa è un brand

Yogi | consulente di comunicazione | nomade digitale

Sviluppo idee creative per aiutare brand e destinazioni a trovare clienti grazie a contenuti web mentre gestisco male la mia dipendenza da viaggi e caffeina.

[La rubrica Perù è composta da articoli di narrativa. Trovi il precedente a quello che stai per leggere qui.]

Io non pianifico mai i miei viaggi.

E’ un aspetto del mio carattere quello di lasciare che le cose accadano. Non sono una pianificatrice neanche nella vita. Non ci riesco proprio. Mi pongo moltissimi obiettivi, questo si, ma lascio che le cose accadono durante il percorso. Anche se guardo ad una meta specifica, tutto quello che avviene nel mentre provo a raggiungerla fa parte del gioco. E lo accetto a pieni polmoni.

Così prima di ogni partenza, così anche quando sono andata in Perù.

In quel caso, al contrario, mi ero sforzata un po’ di più nella programmazione. Avevo controllato gli spostamenti, avevo prenotato dove dormire a Lima ed ero in contatto con i ragazzi che già si trovavano a Huamachuco. Però, non avevo letto una guida intera sul Paese. Non sapevo quasi niente di quello che avrei incontrato. Mi ero limitata ad approfondire solo qualche cenno storico, perché soprattutto era strettamente legato alla natura del progetto di volontariato che avevo scelto. Ma niente di più.

Così il Perù è stato di giorno in giorno una vera e propria scoperta.

 

Il primo shock è arrivato quando da Lima sono volata a Trujillo; la città da dove partiva il mio autobus per Huamachuco, sulla cost nord del Paese.

Trujillo è una delle più antiche città coloniali del Perù, oggi capitale del dipartimento La Libertad.

Sulle guide non si trova menzione di questo aspetto, ma viene considerata una delle città più pericolose dai peruviani.

L’aeroporto di Lima è un classico grande aeroporto internazionale. Le persone arrivano da ogni luogo del mondo, dall’Europa, dall’America del Sud e da quella del Nord. Ci si sente in un certo senso “a casa” perché quello che succede è assolutamente familiare. Diviso su due piani è ricolmo di caffè e ristoranti che ti dissanguano a prezzi decisamente occidentali. C’è il ritiro bagagli, i grandissimi tabelloni degli arrivi e partenze con i rispettivi video schermi un po’ ovunque. Le famiglie che si spostano in massa, gli abbracci e le lacrime che seguono alcune partenze. Poi i ragazzi con gli zaini da trekking, i negozi di souvenir, la polizia e tutto il solito tran tran aereoportuale che rende questi grandi nodi di scambio uguali a se stessi più o meno in ogni angolo del globo.

Prima di prendere il mio volo avevo fatto colazione in uno di questi caffè. Non avevo comprato acqua per non doverla buttare una volta arrivata al gate, e, dato che si trattava di un volo brevissimo, non lo feci neanche quando mi trovavo nella zona franca.

Il volo sarebbe durato circa un’ora.

Arrivata a Trujillo l’aeroporto era deserto. Un edificio di mura bianche, dall’aspetto asettico. Non c’era niente dentro. Si trattava di un volo interno quindi tutti i miei compagni di viaggio erano peruviani. All’arrivo, in un lampo non c’era più nessuno. Io mi guardavo intorno cercando di scovare l’ombra di un bar dove poter prendere almeno una bottiglia d’acqua ma quella struttura era completamente desolata.

Dietro al nastro del ritiro bagagli si trovava l’uscita, così presi il mio zaino e arrivai fuori finalmente.

In quel preciso istante, stavo facendo il mio primo reale incontro col Perù.

Non c’erano autobus ma una miriade di tassisti che insistevano per vendermi un passaggio.

Dopo  quell’esperienza mi sarei abituata a questa insistenza così diffusa in tutti i Paesi poveri, avrei capito che è una abitudine assolutamente normale per loro. Che è il marketing che conoscono.

Col tempo, avrei anche spiegato ad alcuni di loro che questa strategia è del tutto inefficace con gli avventurieri del primo mondo. Perché si, per noi, un prodotto deve farsi desiderare. Ci possono vendere anche esattamente la stessa merce ma diffidiamo di ciò che ci arriva facile, che ha un basso prezzo, o che ci viene esposto con insistenza. Noi paghiamo tre volte il dovuto per ricevere lo stesso servizio purché lo possiamo desiderare, e lo percepiamo come inaccessibile. Tutto il commercio dell’High Luxury trova la sua forza su questo principio.

Si preferisce, in altre parole, andare a cercare l’agenzia di trasporti e fare da loro il biglietto per il solito taxi (pur pagandolo 3 volte il suo prezzo), a patto di non sentirsi “assaliti” da un venditore.

Col tempo avrei anche imparato a districarmi bene in queste dinamiche, sentendomi a mio agio e completamente all’altezza del gioco, ma in quel preciso istante ero solo una ragazza da sola, appena arrivata in Sud America per la prima volta, che non parlava Spagnolo e non aveva la più pallida idea di come poter raggiungere la stazione.

 

 

Decisi di fidarmi, non avevo altra scelta, e salii su una di quelle macchine.

 

Il tassista era la metà di me. I peruviani di quella regione sono di bassa statura, mentre io sono abbastanza alta anche per la media europea. Questo era un punto che giocava a favore del mio senso di sicurezza.

Dato il mio livello pressoché nullo di Spagnolo le nostre conversazioni si ridussero davvero al minimo durante quel viaggio.

Dal finestrino dell’auto però mi guardavo intorno ed il paesaggio era catastrofico.

 

La zona dell’aeroporto non mostrava gli stessi segni dell’alluvione dovuta e El Nino.

Lungo la strada che stavamo percorrendo invece, c’erano montagne di spazzatura accatastate ad ogni angolo.

Le persone spazzavano il suolo in un vano tentativo di tirar via la polvere e le macerie che la tempesta di pioggia aveva provocato durante le settimane precedenti. I risultati dei loro sforzi erano praticamente impercettibili, ma loro insistevano determinati.

In tutti i paesi poveri, dove le condizioni di vita sono più avverse, le persone hanno questa forza d’animo irriducibile e incontrastabile. Era la stessa energia che avevano i nostri nonni e bisnonni, che avevano vissuto le difficoltà della guerra e solo in tarda età avevano conosciuto il benessere economico. Quella era la prima volta che ne facevo esperienza. Questa determinazione con cui gli uomini spazzavano via la polvere da una strada fatta di terra e sassi mi dava forza, e mi spingeva ancora di più a riflettere sulle circostanze della mia vita, sulla mia stessa esperienza di quel momento. Tutto mi appariva così piccolo e superficiale in relazione a quell’universo di valori che stavo conoscendo.

In poco tempo stavamo arrivando alla stazione. Le case erano tutte con i tetti bassi, ed avevano tutte la stessa particolarità: la facciata di fronte era “rifinita” con mattonelle apposite, mentre tutte le facciate laterali mostravano mattoni a vista (per risparmiare sui materiali i peruviani giustamente si preoccupano solo di ciò che si vede di più).

Quando l’auto si fermò mi guardai introno e provai a mettere insieme tre parole chiedendo all’autista se mi trovavo nel posto giusto. La strada era deserta e la stazione sembrava assolutamente chiusa. Mi rispose di sì così scesi ed entrai.

 

C’era una ragazza che lavorava alla biglietteria. Finalmente una donna, pensai. Era gentilissima e provava a parlare con me ma io invece ero completamente incapace di interagire in Spagnolo. Nessuno parla Inglese fuori da Lima, soprattutto a Nord.

Mi tenne lo zaino dietro al bancone comunque, così mi sedetti in una di quelle scomodissime sedie di plastica col mio taccuino. Non avevo acqua. Le chiesi se c’era un posto dove poterla comprare, lei mi fece cenno indicando la bancarella di fronte a noi, ovviamente chiusa a lucchetto. Di lì a breve avrei imparato che nelle stazioni più piccole in Perù le bancarelle che vendono acqua ed alimentari di ogni genere aprono 10 minuti prima delle partenza degli autobus. Perché sì, i Peruviani sono latini, e noi latini non siamo certo famosi per la nostra diligenza o voglia di lavorare.

Fuori dalla stazione non c’era l’ombra di una bancarella o di un negozio aperto. Così aspettai in quella stanza l’arrivo dell’autobus per le successive 5 ore senza un sorso d’acqua.

Durante quell’attesa incontrai un altro vortice di pensieri. Ero lontanissima da casa, quella che fino a poche settimane prima era la mia vita da quasi 10 anni non c’era più, stavo inseguendo un grandissimo obiettivo, ma non ne avevo piena consapevolezza.

Di lì a breve avrei conosciuto tutti gli altri ragazzi, e questo pensiero scatenava una certa ansia in me. Essere da soli è molto più semplice che aprirsi a qualcuno. Questo era l’aspetto che mi spaventava di più. Il terrore di non essere all’altezza.

In quel momento non avevo proprio idea di che cosa sarebbe accaduto.

 

 

 

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SILVIA

Yogi, consulente di comunicazione, nomade digitale.

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